D I E C I M O T I V I P E R C U I C I

V E D R E M O A L L E D I E C I E D I E C I

 

"L’orologio di cui sto leggendo la descrizione […] è da tasca, a doppia cassa

in oro da diciotto carati e dotato di 33 funzioni. […] Passerei ore e ore sapendo

il giorno del mese e della settimana, il mese, l’anno, la decade e il secolo,

l’anno del ciclo bisestile, minuti e secondi dell’ora legale, ora, minuti e secondi

di un altro fuso orario a scelta, temperatura, ora siderale, fasi lunari, ora dell’alba

e ora del tramonto, equazione del tempo, posizione del sole nello Zodiaco […]

Dimenticavo ancora: volendo potrei conoscere anche l’ora che fa. Ma perché

dovrei? Se possedessi questa meraviglia sarei disinteressato a sapere che sono

le dieci e dieci"

UMBERTO ECO

"Come non saper l’ora"

("IL SECONDO DIARIO MINIMO")

 

- introduzione -

Il mio vicino di casa, carissimo amico, ha una strana abitudine, motivata da spiegazioni altrettanto anomale: egli è solito portare, allo stesso polso, due orologi differenti, mentre più di rado questi diventano distinti quadranti di un medesimo supporto.

Ricordo che, quando decisi di chiedergli il perché di tale gesto, egli mi rispose in maniera tanto inaspettata quanto seriosa.

"Vedi - mi disse - quest’orologio qui, questo rosso, segna il vero orario: porta cioè la stessa ora bene o male valida per tutti quelli qui attorno a noi. Questo nero, invece, porta l’ora che vuoi tu. In altre parole, e ti sembrerà strano, puoi sistemare le lancette come meglio credi, attuando, così, un improbabile ma straordinario dominio del Tempo…".

Questa, in breve, la sua risposta.

Improbabile sì, ma scioccamente affascinante.

Ora, considerato che forse mai saremo in grado di ‘dominare il Tempo’ in tal senso (anche se certa qualità del tempo è tutta umana), se non magari costruendo fittizi mondi paralleli (ma si tratterebbe, in ogni caso, di Tempi eletti relativi ed altri, non del nostro, che rimarrebbe quindi intatto punto di riferimento affinché questi altri tempi siano appunto Tempi altri), la proposta del mio amico - ossia di illuderci di poter gestire il Tempo a nostro piacimento - iniziò a mostrarsi quanto mai interessante.

Eravamo così piccoli, a quel tempo, che mai avremmo potuto sapere, ad esempio, di Lucrezio, di Bruno, dei wormholes di Coleman o di quant’altro si riferisse ad una presunta pluralità di mondi, di universi paralleli e di Tempi per l’appunto altri. Né ancora intendevamo l’esistenza di molteplici calendari tuttora in uso (solari, lunari, lunisolari, vaghi e via dicendo); né sapevamo del passato giuliano, del presente gregoriano (inclusi il fatale ‘errore’ di Dionigi il Piccolo e il non meno traumatico ‘vuoto di Ottobre’) e del futuro universale; né, tantomeno, si era impegnati a distinguere l’ora vera (o locale o solare) da quella nazionale, o la ‘truffa’ dell’ora legale dal lodevole escamotage di Filipanti col tempo civile, magari anche chiedendoci se il Sole sotto il quale giocavamo fosse quello vero o quello fittizio…; né, inoltre, avremmo potuto già avvertire, a quel tempo, quel certo leggero ‘disorientamento’, scivolando col pensiero sui ‘punti fermi’, dall’era romana a quella musulmana, a quella volgare o cristiana, oppure condannare, con duro piglio critico (come Peters), la più nota e duratura prevaricazione inglese - siglata GMT o TU - altamente condizionante, com’è noto, anzitutto la questione del Tempo.

Eppure, era in noi un forte desiderio di essere non già nel ‘nostro’ Quando e in un ‘altro’ Dove (non preferendo, così, inconsciamente, l’utopia rinascimentale); bensì in ‘quel’ Dove inamovibile (fosse pure la nostra stessa cameretta), ma in un ‘altro’ Quando, ossia in un Tempo altro (optando, stavolta, altrettanto inconsapevolmente, per un’utopia di stampo illuministico). Effettivamente, divagazioni a parte, tendevamo ad una sintopia diacronica: volevamo, cioè, uno spazio reale, il ‘nostro’ spazio, dislocato più che in un ‘altro’ tempo, in un Tempo altro. Non ci interessava, quindi, a dire il vero, il tempo concreto e uno spazio ideale (entrambi intesi nel presente), come trattandosi di un’ultima Thule ovvero di una Terra sincronica, tuttavia irraggiungibile poiché immaginaria ossia u-topica; piuttosto, speravamo in dimensioni ectocroniche o, per meglio dire, in uno spazio che fosse fisico, tangibile e vivibile, ma in un Tempo del tutto ideale, benché non irreale: ‘gestibile’, in altri termini, poiché eletto e preferito.

E fu così che un giorno, dovendoci incontrare per uscire, prendemmo appuntamento via telefono, decidendo di vederci in prima serata, poco dopo le ore venti, al solito incrocio. Sulla scorta del ‘sentire comune’ suesposto, allora, decidemmo altresì di fissare, a nostro piacimento, un’ora altra, che ci permettesse di superare illusoriamente quella naturalissima ‘convenzione’ per la quale le venti sarebbero state comunque le ore venti.

Scherzammo insieme sull’orario che maggiormente avrebbe potuto soddisfarci, concludendo rapidamente che, affinché ciò fosse potuto accadere, ci saremmo dovuti incontrare alle ‘nostre’ dieci e dieci. Copiose e a tratti sfuggenti appaiono le ragioni di quest’ironica ed immediata scelta, e sembra che le stesse - col ‘senno’ del poi - possano motivare, grosso modo, la frequente presenza proprio delle dieci e dieci su orologi utilizzati in illustrazioni pubblicitarie, in talune pellicole o anche come generico simbolo o icona, anzitutto in vece di richiamo ad una serie di orari (cioè, non intendendo precisare alcun orario specifico legato al contesto generale che ospita l’immagine).

Un fatto è che molteplici elementi o accadimenti ci spinsero a formulare in quel modo, ossia a preferire un Tempo altro.

Ricordo infatti che un autunno, quindi col ripartire delle trasmissioni televisive, ci sorprendemmo ‘maturi’, attenti ai Tempi ‘catodici’ e pronti alla ‘vertigine’: contenitori per ragazzi reiteranti côtidîe il medesimo Tempo; promozioni di vario genere vincolate comunque a cicli innaturali; pubblicità che parevano proporre, com’è poi ovvio, un materiale tenuto in segreta sospensione crionica e disgelato solo in base a tempi comandati ovvero grazie alla nostra attenzione di fruitori. E fu allora che iniziai a capire, prima ancora di poter ben comprendere che esistono tanti tempi locali quanti sono i meridiani, di essere stato indotto a percepire un Tempo altro, giacché esisteva un Tempo proprio di quasi tutte le pubblicità: trattasi, dunque, delle dieci e dieci. Prestando quindi più attenzione a tutti quei contenitori che avessero potuto ospitare, direttamente o indirettamente, riferimenti più o meno espliciti al proprio Tempo ed anzitutto al proprio orario, mi resi conto, a partire da quel momento, di quanto il nostro Tempo fosse invaso dalla presenza insidiosa delle dieci e dieci.

In altre parole, è bene indagare, anzi razionalizzare, quelle celate ‘necessità’ istintive che ci avrebbero spinto a formulare, o meglio a cernere, grazie proprio alle dieci e dieci, un segno grafico per nulla anonimo o mancante di un più che precisabile intento compositivo.

Le presunte motivazioni e le svariate ipotesi descritte, uti singulæ, se colte singolarmente, risulterebbero molteplici.

Sono state comunque raggruppate in dieci punti di convenienza, anzitutto allo scopo di favorire il gioco di parole nel titolo dello scritto (con le M come Motivazione o Mandante):

M1. Importanza di presenze nella metà superiore (del quadrante);

M2. Questione simmetrica (richiesta grafica);

M3. Dominio dell’angolo ottuso (sugli altri angoli possibili);

M4. Questione fonetica (richiesta sonora);

M5. Corretto "orientamento" del segno (10:10 e non 1:50);

M6. Rapporti con la terza lancetta (35’’);

M7. Doppia decina (richiesta numerica);

M8. Numerologia, cicli biologici, coincidenze…

M9. Funzionalità e funzioni "commerciali";

M10. Suggestione di immagini possibili.

 

Gli stralci seguenti - estratti da TRE APPUNTAMENTI. DIECI MOTIVI PER CUI CI VEDREMO ALLE DIECI E DIECI (in corso di scrittura) -, seppure ancora in forma non conclusa e frammentati, si intendano quali stimoli ad una riflessione sul fatto totale delle dieci e dieci; che poi è ciò che si è voluto nel caso dell’evento VENTIQUATTRORE.

… … … … …

Si intenda positivamente l’importanza di occupare la metà superiore del quadrante.

Quest’ultimo, inoltre, funzionalmente circolare, riporta quindi il simbolo del cerchio e magari pure la concretezza delle sue interne ripartizioni. Anzitutto, ad ogni modo, nessun punto di rottura del ductus grafico: né linea spezzata, e quindi angoli, né linea curva complessa, e quindi maggiore o minore concavità o convessità ovvero eccentricità.

Perfezione del cerchio; equilibrata sessagesimazione; scansione precisa delle unità.

Unico punto di immediata ricognizione ed evidenza è quindi il centro, sia nel mezzo del cerchio sia vincolo obbligato per le lancette.

Allora, lo ‘spazio eletto’ di tale cerchio, che così caratterizzato diviene quadrante, risulta interpretabile pure in base al suo centro, poiché proprio rispetto ad esso vi sarà un sopra, un sotto e così via. Inoltre, le stesse lancette, con il loro disporsi, guideranno lo sguardo, indirizzandolo - e situandosi - sempre rispetto al mezzo, a volte sopra, altre volte sotto e via dicendo.

Ora, riferendoci ancora alle 10:10, il relativo assetto delle lancette sarà definibile come rassicurante, come garante di un dominio spaziale, giacché si afferma che: [i] la sezione inferiore dello ‘spazio eletto’ è protetta poiché occupata anche dalla sola proiezione di chi abbia l’orologio o comunque dall’osservatore, per prossimità spaziale; [ii] la sezione superiore del medesimo ‘spazio eletto’, invece, è protetta proprio perché occupata dalla concreta presenza delle lancette, diciamo pure per matericità effettiva.

E difficilmente potrebbe essere il contrario.

Inoltre, si può dire che lo stesso centro - oramai ‘orizzonte’ tra sopra e sotto - sia praticamente ‘gestito’ dall’osservatore che vi impone la propria presenza, assumendolo come significativo punto di riferimento. Dunque, in altre parole, non è errato affermare che vi sia [i] un sotto ‘taciuto, ma pensabile’; [ii] un centro ‘assunto e vissuto’; [iii] un sopra ‘distante, verso cui si protende’.

Una simile struttura, tra l’altro, fa pensare a quella vastissima serie di elementi, naturali o meno, svolgenti il ruolo di axis Mundi, cioè dichiaranti, fra le tante cose, una forma rassicurante e salvifica di ‘dominio totale’.

Ora, l’araldica ha da sempre utilizzato - com’è noto - una gamma di soggetti stilizzati, fortemente caricati di un senso allegorico, e, tra questi, quasi una trentina di alberi, tra cui c’è il frassino. Una sua varietà, l’orno o orniello (fraxinus ornus), secerne una sorta di resina zuccherina ricavata dal tronco, per incisione: la cosiddetta manna. Il riferimento è biblico, se si intende quel qualcosa distribuito da Dio agli Ebrei nel deserto, indi l’Eucarestia; è esteso, se si intende qualsiasi cibo o bevanda molto gradevole; è figurato, infine, se riferito a cosa o fatto utile e favorevole. Tutta questa somma di alti significati si va ad aggiungere ad un motivo di base comunque primario: l’albero - e non solo araldicamente, com’è ovvio - è un simbolo di concordia, tanto che se spoglio ed avvizzito intende malinconia o impresa non riuscita. Il frassino, in particolare, è assunto direttamente dalla mitologia germanico-scandinava (pure per una sorta di ‘obbligo’ geo-climatico, relativo alle foreste temperate), secondo la quale gli Dei, organizzando il Concilium Deorum, si riunivano appunto sotto il frassino Yggdrasil. La sua vetta entrava nel Cielo, i suoi rami coprivano la Terra, le sue radici arrivavano fino agli Inferi. Padronanza assoluta. E questo non è che uno solo degli innumerevoli esempi possibili circa l’importanza ancestrale di quel tramite che tiene insieme i tre livelli, i tre Regni, garantendo anzitutto continuità di comunicazione.

Ora, a ben vedere, trattasi rispettivamente di un sopra, di un centro e di un sotto.

Infatti: [i] il Cielo è quello spazio ‘distante, verso cui si protende’; [ii] la Terra è quello spazio ‘assunto e vissuto’; [iii] gli Inferi, infine, rappresentano quello spazio ‘taciuto, ma pensabile’. Effettivamente, è l’uomo che coordina il sopra ed il sotto (direzioni, e quindi spazi, fondamentali), relativamente al proprio spazio, quello del centro, quello in cui egli stesso si pone. E l’osservatore del quadrante, con lo sguardo, si colloca proprio sul perno delle lancette, punto evidente cui ci si riferisce per più di un motivo.

Il fatto di conoscere, bene o male, il proprio orizzonte (e di averne goduto, inoltre, col tempo, una quantità sempre maggiore, in senso orizzontale) ha da sempre spinto pure verso ipotesi di ricognizione verticale e verso ricognizioni verticali effettive: dunque, da una parte, e in più modi, tutti i Verne della storia, ante e post litteram; dall’altra, invece, i viaggi nello spazio in genere e qualsiasi forma di profonda intrusione nel sottosuolo. Queste due sedi e forme di alterità hanno da sempre ricevuto iniezioni di senso allegorico e mitico, nonché religioso o metastorico tout court.

Quel sottile strato di suolo effettivo che ospita stabilmente l’uomo, separa il sopra dal sotto, ed il sopra comincia subito dal suolo verso l’alto; il sotto, viceversa, comincia subito dal suolo verso il basso. Quasi come se il suolo stesso fosse nient’altro che un fino confine, come fosse adimensionale o, per meglio dire, così poco definibile da poterlo ridurre a ductus esclusivamente relativo alle variazioni del sotto, in verità, più che del sopra; anzi, relativamente alla mutante relazione sopra/sotto (si pensi semplicemente alla vita di un fosso o di un rilievo, prescindendo dall’ironica ‘invivibilità’ del punto-zero, o soprattutto dal fatto di poter trasporre tale presunta adimensionalità alla questione del Tempo).

Concludendo, quindi, esiste un’infinità di modi di protendere verso il Cielo, spazio distante. Ed è assunto da tempo il legame ‘distante-altissimo-divinità’, per il quale, volendo in certa misura rassicurare la propria persona, magari si è soliti occupare il Cielo stesso con lo sguardo: in cerca del proprio Deus absconditus, della vetta della Sacra Montagna, dell’ultima chioma dell’Yggdrasil.

In secondo luogo, completando, se proprio vuol darsi concretezza al fatto di considerare lo sceleratorum Regnum quale spazio di sotto, si dovrà intenderlo come effettivo underground e magari proprio come spazio ‘taciuto, ma pensabile’, così come il sottosuolo stesso è inteso, tra l’altro, dalla Scuola di Besançon: tra ‘sistema produttore’ (qual è l’ambiente geografico totale) e ‘sistema paesaggio visibile’ + ‘sistema utilizzatore’ (ossia, sola visibilità + soggetti percettivi diversamente motivati), esiste pure una zona detta di ‘non-riducibilità’, includente, ad esempio, le fondamenta di una casa, la piattaforma continentale, le radici di un albero.

… … … … …

 

Il termine ‘ottuso’ sta per smussato, senza punta, non tagliente e, figuratamente, per stupido, tonto, poco perspicace. Quindi è ovvio che viceversa avremo una semantica che parta dal principio di ‘acuto’ in quanto aguzzo, acuminato, appuntito, per poi approdare al figurato di pungente, penetrante, sottile, sveglio.

Inoltre, etimologicamente - com’è noto -, lo stesso termine ‘ottuso’ deriva dal latino obtusu(m), participio passato di ob-tundere, cioè ottundere, percuotere, stordire. Quindi, il vocabolo, se riferito, ad esempio, al puntone di un’arma, sta per ‘smussato’; invece, se inerente un’apertura angolare, la dichiara ‘allargata’, proprio perché trattasi di un angolo meno appuntito: se ne considera, cioè, più la parte concava che non quella convessa.

D’altra parte, viceversa, il termine ‘acuto’ viene dal latino acutus, derivato di acus (‘fornito di punta’). Di qui la biforcazione: da un lato abbiamo ‘ago’ o, per ampliamento, ‘aculeo’; figuratamente, invece, dallo stesso acus di base, nasce il verbo denominale acuere (poi acuìre), il cui nome d’agente è acumen, ossia ‘acume’.

Concludendo, dunque, possiamo contare aghi, aculei e punte, come possiamo riferirci a finezza, perspicacia e acutezza mentale: il tutto, avendo come fondo un angolo, materico o figurato, incluso tra i gradi 0 e 90, esclusi gli estremi stessi. Superato il ‘confine’ dell’angolo retto, invece, e fino ai 180° (non inteso questo stesso limite), tratteremo un angolo ottuso. Tutto questo non essendo una superflua descrizione geometrica, bensì allo scopo di confermare, anche e soprattutto ‘concettualmente’, la forte e valida opposizione tra ‘ottuso’ ed ‘acuto’. In altri termini, se la considerazione oscilla tra convesso e concavo, avendo come ‘punto fisso’ l’angolo retto, allora - combinando questo supposto colle suesposte osservazioni semantico-etimologiche - tenendo un angolo acuto, baderemo alla sua ‘punta’; mentre, avendo in conto un angolo ottuso, stimeremo la sua ‘apertura’: di questi ovvi principi pratici vivono la tecnica del cuneo e quella della maggior parte dei contenitori.

Saranno quindi le 10:10 e non le 11:05 (angolo ottuso, cioè, e non angolo acuto), per la gradevole accoglienza di un contenitore e non per l’incisiva ma pungente forza di una punta: goderemo, allora, e paradossalmente, dell’ottusità anziché dell’acutezza, tuttavia ben conoscendo quale e quanta ‘ospitalità’ offrano certe ‘ottusità’…

Potremmo quindi cercare, nelle 10:10, la forte stilizzazione di una poltrona o di una sdraio, ovvero partire da un qualsiasi oggetto suggerito, ricavandone un messaggio o comunque un’intuizione, e vedere se questo sia presente nel disporsi delle lancette, ora pure solo linee di geometrica e assai spicciola costruzione.

È indubbio che poltrone, divani e sdraio regalino, anche solo come simboli o figure, un senso di rilassamento e di accoglienza, una voglia di prolungare su di essi il tempo, sostandovi; in caso avessimo, ad esempio, le 3:00, invece, saremmo spinti magari a vedervi una sedia sulla quale, più che sostarvi, nella maggior parte dei casi, in verità, ci si ferma; con esempi limite del tipo 11:05, infine, l’angolo acuto venutosi a creare non suggerirebbe - credo - alcuna sedia, poltrona o scanno che sia, data l’assenza di riscontro col reale (in quanto ad ergonomicità, se non a comodità) e la misera apertura angolare, incapace di accogliere chiunque vi si voglia accomodare, anche solo simbolicamente o figuratamente.

Ad ogni modo, pure se quanto espresso rimanda anzitutto al vero quid di M3, sarà comunque possibile combinarne i tratti esemplari (strutture accoglienti) con le misure di efficacia e piacevolezza nel realizzare una figura ‘irregolare’ all’interno di un campo invece ‘regolare’ dal quale, idealmente, essa tenda ad uscire. E sarà il caso di un angolo né retto né piatto né giro, bensì ottuso (poi vi sarebbe anche l’acuto - escludendo a priori il suo improbabile replementare - ma è da elidere, almeno in questo caso, per i motivi succitati ed altri ancora). E credo sia stimolante e significativo pensare come la scelta di creare un ‘segno irregolare’ (angolo ottuso, quindi, con le lancette) all’interno di un ‘supporto regolare’ (circonferenza o anche quadrangolo che facciano da quadrante) sia quasi obbligata in tal senso da una spinta a bilanciare le forme, in modo pressoché similare a quello perseguito dall’astrattista olandese Gerrit Thomas Rietveld nella realizzazione della sua celebre Poltrona, del 1917.

In questo puro esempio di essenzialità e nettezza di forme, infatti, ad uno scheletro di incontri ortogonali fra montanti, traverse e braccioli, corrisponde - internamente - l’anima vera della seggiola: uno schienale ed un sedile, formanti tra di loro un angolo ottuso, quali piani semplici, semplificati ed identificati, rispettivamente, dai colori rosso e blu. Il sedile è ovviamente più corto dello schienale. Credo, allora, che grosso modo vi si possa trovare lo stesso intento perseguito da chi ‘ponga’ le 10:10: come già espresso, dunque, si scardinerà verso l’ottuso l’incastro diligente tra piani o linee, controbilanciando l’assetto preciso del contenitore che ospita scanni o lancette.

A questo punto, anche al di là della stessa poltrona di Rietveld, si intendano i tre esempi sopra riportati: 10:10, 3:00 e 11:05, e quindi rispettivamente: angolo ottuso (sdraio o poltrona), angolo retto (sedia) ed angolo acuto (nessun oggetto su cui o, per altro dire, entro cui sedersi). Teniamo solo i due esempi estremi, vale a dire quello delle 10:10 e delle 11:05.

Volendo ulteriormente sostenere che le lancette posizionate alla prima maniera (angolo ottuso) comunichino accoglienza, come le classiche braccia volte al cielo o all’osservatore, basterebbe pure poter sostenere che un angolo ottuso, data la sua apertura, riesca a richiamare alla mente un frammento di circonferenza (quale angolo ampio che ‘sappia di curva’) tanto quanto un angolo acuto, invece, rappresenti uno spigolo, un vertice, una punta.

Ora, avendo voluto nuovamente sul campo 10:10 e 11:05, e, così, l’angolo ottuso contro quello acuto, si trovano quindi a contendersi il quadrante un presunto frammento di circonferenza ed una punta: dunque, estendendo il concetto, una figura curviforme e una figura spigolosa. Tuttavia, se a questi due tipi, seguitando, associassimo rispettivamente il senso positivo della fiducia (poiché accogliente) e quello negativo della diffidenza (giacché pungente), ci troveremmo a parlare con W. Köhler di maluma e di tákete, in questo caso ‘elemento dolce’ ed ‘elemento aspro’, riferiti, senz’alcuna esagerazione, ad una curva o ad un angolo ottuso (continuità del tratto o ampia accoglienza) e ad uno spigolo o ad un angolo acuto (discontinuità del tratto o accoglienza minima o nulla). Ugualmente, ad un angolo ottuso si riferisce una maggiore porzione di ‘spazio’ rispetto a quella definita da un angolo acuto, sempre intendendo lo ‘spazio’ compreso dalla minore apertura angolare ossia dalle due lancette: si tratta, cioè, di ampia e non minima apertura verso chi osserva, quasi una porta spalancata anziché socchiusa ed uno spigolo che tende al curvo anziché essere punta minacciosa (anche perché un angolo ottuso ‘sa di contenitore’, mentre quello acuto suggerisce aculei, pungiglioni, potendo comunque mettere a disagio).

Köhler, in verità, parla di metodi di attribuzione, grazie ad una linea curva intrecciata e ad una linea spezzata intrecciata; tuttavia, il caso in esame può trovare in ciò punti d’appoggio, nella misura in cui riesca a ‘presupporre’ maluma e tákete, tenendone il ‘valore’.

Inoltre, e credo proprio che qui si colga il vero senso del funambolico parallelismo, non è poi tanto strano considerare una plurima contiguità di angoli ottusi come tendente ad una curva, se, avendo un triangolo, anche equilatero (quindi, tre angoli acuti), di Area=X, moltiplicando i lati, e con essi - com’è ovvio - pure gli angoli, si giunga, ad esempio, ad un dodecagono magari sempre di Area=X.

Il moltiplicarsi degli angoli, dunque, parallelamente all’aumento dei loro gradi, della loro ampiezza, ha fatto sì che la linea perimetrale della figura piana alla quale si è giunti riesca quasi a dare il senso di una circonferenza: e quanto più i segmenti che compongono il perimetro saranno minimi, allora, maggiormente si avvertirà questa suggestione. Per cui, concludendo, anzitutto a parità di Area ma non solo, nel passaggio da una figura piana regolare a tre angoli ad una figura essenzialmente delineata da dodici lati, vive la suggestione per la quale - sapendo che aumentando i lati aumentano gli angoli e con essi la loro ampiezza (non potendo mai, tuttavia, e necessariamente, raggiungere i gradi 180, quindi mantenendosi ottusi) - un angolo ottuso, infine, può richiamare un ‘frammento di curva’ e, con questo, il senso del maluma köhleriano: elemento dolce e rassicurante.

Per altro verso, un fatto è che gli stessi termini maluma e tákete, in realtà, e com’è poi ovvio, rimandino, non a caso, ad una certa percezione sonora sovranazionale.

Nel primo vocabolo, infatti, la doppia presenza di una nasale sonora bilabiale (continua); l’esserci di una liquida sonora dentale (anch’essa continua); la qualifica di parola piana, dunque ‘fluida’; la presenza vocalica, alternata, di una doppia e ‘facile’ intermedia (apertura massima) con una posteriore o velare (chiusura massima), consentono un suono relativo assai gradevole all’ascolto, morbido, quindi foriero almeno di ‘dolcezza’.

Nell’altro termine, invece, la doppia presenza di un’occlusiva sorda dentale (momentanea); quella semplice di un’occlusiva sorda velare (anch’essa, e non a caso, momentanea); la qualifica di parola sdrucciola, dunque letteralmente ‘aspra’; la presenza vocalica, non alternata ma consecutiva, di una doppia e ‘impegnativa’ anteriore o palatale dopo un’intermedia significativamente tonica, forniscono un suono che diremmo ‘spezzato’, pungente, quindi garante di certa asprezza.

Ora, al momento, non so cosa effettivamente denotino i due vocaboli di Köhler, ma può sempre riferirsi la medesima vicenda di suggestione sonora ad altri due termini, magari felicemente designanti qualcosa di noto ed anzitutto materico (quindi, ognuno avente in sé ciò che può rimandarsi all’ottuso o all’acuto).

Esaminiamo, ad esempio, i termini ‘breccia’ e ‘puddinga’.

L’uno e l’altro si riferiscono entrambi a ‘rocce sedimentarie clastiche cementate e coerenti, dette conglomerati, di carbonato di calcio, ossido di ferro o silice’: tuttavia, il primo tipo è di detriti di falda, è alla base dei rilievi ed anzitutto i suoi componenti sono spigolosi; mentre l’altro genere si riferisce a diversi sedimenti di deposito fluviale, è di facies continentale e, soprattutto, i suoi elementi sono stati arrotondati dal trasporto dell’acqua. Significativamente, il suono si sposa con la forma o, per meglio dire, è da quest’ultima - com’è ovvio - che nacque e nasce ancora la relativa designazione: ‘breccia’ rimanda a qualcosa di frantumato, di rotto, di fratturato e scheggiato; ‘puddinga’, invece, deriva da quel poudingue, ovvero da quel pudding, che sta per budino: quindi niente di più tondo, di più buono, di più ‘dolce’.

Da tutto ciò, sarebbe possibile intendere la generale propensione a preferire l’ottuso anziché l’acuto (anche su di un quadrante, quindi), poiché garante di quella certa fiducia, di una tale affidabilità, di un estremo senso di rassicurazione, tutti padri e figli, insieme, della medesima comunicata "positività".

Ottuso, però, in questo caso, sta pure per maggiore estensione dei tratti, quindi per maggiore presenza spaziale: problema, questo, svolto sì in M1, ma qui trattabile se accostato al trionfo delle 10:10 sulle 11:05, dell’ottuso sull’acuto. Dunque, procedendo da quanto già espresso circa l’esperimento con la plastilina, può allora dirsi che l’uomo acquisti le proprietà delle forme grazie pure all’esperire e all’apprendere, che vi sia insomma una qualche innata esigenza personale, portata poi allo scoperto in tale modo: è alle 9:15, e cioè orizzontalmente, che potrebbero porsi le mani sullo sterzo ed i piedi in una nota e fondamentale postura in danza; tuttavia, diciamo pure che quella più consueta e pratica da un lato, e più anatomicamente conveniente dall’altro, dimostrano una certa necessità di dominare al meglio possibile uno spazio, che si tratti di uno strumento da gestire o di una porzione di piano d’appoggio. Da qui a sostituire quel dominio di uno spazio effettivo (con mani o piedi) col dominio di uno spazio eletto (con un segno o con materia, ovvero con le lancette) il passo non è lunghissimo e neppure forzato. L’angolo ottuso permette, in ultima istanza, una ragionata, piacevole, necessaria e rassicurante presenza su di una più vasta porzione possibile dello spazio che si intenda impegnare.

… … … … …

Schematicamente trattando, alle 10:10 (così come in altri casi), le lancette potrebbero essere intese quali linee convergenti verso un punto comune, che poi è il centro di un cerchio, piuttosto che come linee divergenti in avanti o verso l’alto, nella misura in cui vorremmo vedervi l’allegrezza di braccia protese al cielo. Questo, assecondando un certo procedere, nonché il nostro verso di lettura o la naturale forza di gravità: quindi, in tal senso, l’occhio sarebbe condotto verso un punto preciso - qual è proprio il centro di un cerchio (già simbolo di perfezione e figura geometrica priva di punti evidenti come gli angoli, dunque conduttrice verso l’unico punto di rilievo) - da una sorta di freccia che procede ‘con facilità di spinta’ dall’alto verso il basso o comunque verso di noi.

È un fatto evidente, tuttavia, che le stesse lancette - com’è d’altronde ovvio - potrebbero precisare anche un altro percorso, uguale ed inverso a quello citato, ponendo quindi in essere la validità di un doppio procedere (ossia partendo pure dal centro, tendendo alle estremità libere, in senso divergente: quasi in direzione centrifuga, esterna, volendo indicare, sicut examina, qualcosa verso cui si protenda).

Una simile finalità credo possa essere propria dell’Illuminazione di Renè Magritte (1934). In quest’opera, lungo le lancette, le impossibili 8:07 conducono lo sguardo dell’osservatore a delle nuvole, a destra, e a dei sonagli, a sinistra. Al tempo stesso, tuttavia, questi due elementi - cioè, tempo che passa (con nuvole che si spostano) e tempo che si rende presente (con sonaglini in grado di trillare) - sono collegati al quadrante centrale, che segna il tempo nella maniera più semplice possibile: grazie a lancette, che si è detto essere sia direttrici dal centro verso i campi d’interesse sia conduttrici di questi ultimi ad un punto comune.

Può risultare - questo della tela - un esempio essenzialmente volto a stabilire, a priori, che, qualunque sia la scelta dello sguardo sulle lancette stesse, il percorso inverso, più che tale, risulterà efficace e complementare nonché suggeritore alternativo.

Riguardo, poi, la ‘facilità’ con cui si leggono le 10:10 e la ‘difficoltà’ con cui si leggerebbero, ad esempio, le 8:20, quanto sopra avanzato non sarà ovviamente teorizzabile quale inamovibile chiave di lettura: anzitutto perché, mutando i punti di riferimento, e con essi i signa associati, verrebbe a prodursi una lettura uguale e contraria, oppure opposta e complementare (come nel caso delle lancette di Magritte), al cammino oculare prescelto ed intrapreso.

… … … … …

Non è detto che la lancetta dei secondi possa sempre, ed efficacemente, fungere da spigolo in primo piano di un solido immaginabile. In realtà, sempre nel caso delle 10:10, la lancetta dei secondi potrebbe anche non essere ferma sul 12 - tra l’altro, segno di una certa precisione, dell’ora netta, del passaggio da un minuto ad un altro e da un’ora alla successiva, di una simmetria, di una conferma di verticalità o spinta verso l’alto o in avanti, e così via -, bensì sul numero 7, come si nota davvero in parecchie figurazioni. Anche questa scelta, che sembra dunque la preferita, potrebbe avere tante spiegazioni possibili quante ipotesi si possano avanzare sul ‘mistero’ delle 10:10, se di mistero è lecito parlare. Tra le credibili o immaginabili, pescando assai fantasiosamente, potrebbe magari risultare valida quella nata come reazione all’evidente questione delle misure differenti delle due lancette principali.

Quella delle ore, infatti, è più larga e corta rispetto a quella dei minuti, invece più lunga e sottile; anche se, non di rado, si hanno lancette larghe allo stesso modo o caratterizzate singolarmente nella maniera più imprevedibile, ma pur sempre di lunghezze differenti.

A ben vedere, quindi, se all’esposta questione della lunghezza sostituissimo l’altrettanto evidente differenza di quantità materica presente su di un campo, sarebbe allora non priva di significato l’ipotesi per la quale anzitutto nel problema della presenza si anniderebbe il tesoro effettivo - figlio di una scelta forse istintiva, ma ovviamente svelabile con un’opera di razionalizzazione - che impreziosisce il caso efficace delle 10:10.

A questo punto, pare d’obbligo puntualizzare su un particolare.

Le ore sono dodici e si ripetono due volte al giorno, per un totale di due giri completi della lancetta predisposta a misurarle, nell’arco quindi di ventiquattr’ore. I minuti sono invece sessanta, tanti quanti sono i secondi. Sarebbe allora logico avere due distinti riferimenti, uno valido per le ore, l’altro sia per i minuti sia per i secondi. Ora, nell’ordine in cui solitamente va recepito e riferito l’orario ovvero nel rispetto dell’unità di tempo (ore, minuti, secondi), si avranno quindi i due riferimenti in questa sequenza: [i] ore; [ii] minuti e secondi, altresì considerando la direzione radiale centrifuga di tale ordine, in quanto a scala di misurazione. Quest’ultima, inoltre, sarà almeno doppia in un orologio-tipo, avendo infatti, partendo dal centro e proseguendo proprio in direzione radiale, un primo recinto formato dai dodici numeri delle ore, ed un secondo caratterizzato dalla presenza di una ripartizione sessagesimale, utile sia alla lancetta dei minuti sia a quella dei secondi. A questo punto, in verità, la logica vorrebbe che, data la presenza di un doppio riferimento, e prevalendo magari questa ragione su quella della presenza, invece, di tre fattori (ore, minuti, secondi), le misure delle lancette fossero due, anziché tre: quella delle ore, fino ai dodici minuti in circolo; quella dei minuti e dei secondi, fino alla più esterna suddivisione in tacchette (presenti o immaginabili).

Tuttavia, è proprio considerando il modo peculiare di intendere l’orario che le misure, alla fine, risultano tre: appunto, quella delle ore, quella dei minuti, quella dei secondi (comunque non dimenticando una certa e relativa esattezza pure nell’anzidetta bipartizione, riferita essenzialmente al fatto che quelle che noi siamo soliti chiamare ‘ore’ sono realmente le ore, mentre il termine ‘minuto’ - che sta per ‘piccola particella’ - vale tanto per la sessantesima parte di un’ora, detta ‘minuto primo’, quanto per la sessantesima parte di quest’ultimo, correttamente detta ‘minuto secondo’, sebbene lo stesso termine ‘minuto’, correntemente, stia per ‘minuto primo’).

Quindi, giunti infine al fatto che le misure delle due lancette principali sono differenti; che il motivo di ciò alberghi nella certezza di un doppio riferimento; e che, sempre alle 10:10 e sempre in direzione radiale e centrifuga, due presenze (una volgendo al 10 delle ore, l’altra raggiungendo il 2 dei dieci minuti) si diramino dal centro invadendo, in misura disuguale per lunghezza, il quarto sinistro e quello destro nella metà superiore del quadrante, è ovvio supporre che, volendo equilibrare esteticamente la presenza di linee nel cerchio, si debba collocare la terza lancetta: [i] naturalmente in basso; [ii] nel quarto sinistro del quadrante (in pratica, dove c’è una linea matericamente più breve, quindi meno consistente); [iii] su di una tacchetta ben precisa.

Riguardo quest’ultima scelta, si tenga quindi la possibilità di porre la lancetta dei secondi sul 6, sul 7, sull’8, sul 9.

Nel caso dell’8, in realtà, i secondi parrebbero il prosieguo grafico dei minuti (dunque, lancette non nettamente distinte); nel caso del 9, invece, si avrebbe troppa poca distanza fra le tre lancette (ed in particolar modo tra quella atta a misurare le ore e quella ancora da sistemare); nel caso del 6, infine, si avrebbe un buon dominio dello spazio, ma per compensare quel materico scompenso di cui sopra, la lancetta dei secondi dovrebbe essere posta maggiormente verso sinistra.

Ecco un probabile perché alla posizione della lancetta dei secondi sul 7 o comunque in prossimità dello stesso numero.

Tuttavia, è da notare quanto marginale sia il ruolo svolto dalla ‘terza linea’ in fatto di solida caratterizzazione grafica, e come essa, per l’appunto, possa spostarsi rapidamente da un numero all’altro, modificando poco o niente l’impianto grafico comunque garantito già dalle lancette principali (vuoi per convenzione vuoi per forte presenza). E la motivazione di ciò, allora, sarà associata al fatto che sono questi due tratti - insomma, le ore e i minuti - che più interessano una valida e sufficiente formulazione dell’orario.

Inoltre, potremmo altresì azzardare che la stessa lancetta dei secondi porti con sé una sorta di difetto, che in realtà, al tempo stesso, è punto-forza della sua presenza: risulterebbe assai difficile, cioè, intenderla non in movimento o, per meglio dire, arrestata nel suo ticchettare. Infatti, considerando il tempo di messa a fuoco dell’immagine, una prima comprensione, l’interpretazione del presunto significato o suggestione e via dicendo, tutto si svolge in un tempo relativamente breve, ristretto forse nell’arco di un minuto, ma sicuramente interno ad alcune decine di secondi.

In altri termini, insomma, il tipico rapido sguardo al proprio orologio (per sapere l’ora) o ad un orologio-tipo di quelli inseriti in contenitori e circostanze d’ogni genere (perché da questo attirati, per un qualsiasi motivo) porta con sé pure un’impressione grafica, come se una serie di presenze su quello che sappiamo essere uno ‘spazio eletto’ (quadrante) si fissasse rapidamente nel pensiero superficiale, organizzandosi, e magari poi agendo subliminalmente, ossia donando tutto ciò che quei tratti organizzati siano in grado di suggerire.

In ultima istanza, è realmente si danno le 10:10 come orario possibile delle pubblicità, delle promozioni, delle esposizioni (e non solo di orologi), tenuto in sospensione, cioè mai trascorrente né trascorso, ed attivabile grazie allo sguardo di chi è fruitore di immagini. In alcuni casi, anzi (ed ancor più sui formati digitali), possono leggersi le 10:08:59, come se, nel momento stesso in cui l’occhio casca sopra la figura, l’orario si attivasse portandosi immediatamente alle 10:09, e dunque concedendo un minuto circa di comprensione dell’insieme, fino alle 10:10. Nelle fotografie, infatti, è anzitutto più frequente che nei disegni la presenza della lancetta dei secondi, giacché, se indesiderata, da un lato dovrebbe togliersi, dall’altro basterebbe non realizzarla; inoltre, in questi casi, lo sguardo stesso potrà ‘metterla in moto’, e con essa l’intero orologio, in modo da avere impercettibili 25" circa per carpire e capire l’insieme - fino alle 10:10 (dato che, in realtà, spesso le lancette sono sì alle 10:09, ma si tiene in giusto conto l’ovvia possibilità di approssimazione per una serie di motivi, anche di suono) - ed un’altra buona cinquantina, prima che scattino effettivamente le 10:10 (variazione grafica, a dire il vero, assai minima).

Dunque, abbiamo le 10:09, ma anche le vere 10:10.

… … … … …

Considerando il fatto stabile che l’orologio potrebbe riferirsi anche all’insieme di cui fa parte (in un’illustrazione pubblicitaria, ad esempio) pure in termini di associazione di intenti, sarebbe allora giustificabile trovare un Grudge anziché uno Smile (tenendo in ogni caso questa doppia attribuzione) magari all’interno di un servizio giornalistico sul sonno, sui ritardi, sulla stanchezza, sulla difficoltà di alzarsi presto la mattina. Si avrebbe, quindi, e difatti molto spesso si ha, un orologio con le 8:20 e non con le 10:10, per un’efficace esplicazione segnica, ribaltando in pratica quanto descritto entro il perché della presenza nella metà superiore di uno spazio più o meno eletto; per una questione di orario tout court, ossia comunemente accettando le 8:20, a mo’ di giustificazione, un effettivo ritardo rispetto ai classici tempi d’ufficio.

Ci si chieda, però, anche in che misura possa sussistere un legame, un contatto, tra le 10:10 - come orario fuori del Tempo - e la condizione cronologica concreta entro la quale l’ora-standard si trovi inserita ovvero venga ad essere intesa.

Sapendo che l’orologio biologico che regola il nostro organismo è sincronizzato sul ritmo luce/buio, potremmo non solo supporre che quel segno grafico possa valere, com’è poi ovvio almeno per i formati analogici, tanto come 10:10 quanto come 22:10; ma, oltre a ciò, tentare di inquadrare questo stesso doppio orario all’interno dei formulati ‘spazi temporali ideali per’ (limitando la ricognizione solo a ciò che interessa strettamente un certo aspetto fisiologico).

Questi, alcuni li contano essenzialmente in numero di quattro: [i] 8:30/12:00 ca., per colazione come pieno di energie, recupero del tono muscolare, prime attività…; [ii] 15:00/18:30 ca., per movimento come perdita di peso, piena attività, moto ed esercizio fisico che richiedano uno sforzo moderato…; [iii] 20:30/22:00 ca., per scaricare lo stress, passeggiare a ritmo lento, accompagnare il corpo al sonno, prepararsi al riposo dopo una cena leggera…; [iv] 23:00/7:00 ca., per riposare, recuperare energie psicofisiche, conservare la qualità della salute senza violentare i bioritmi fisiologici, e via dicendo.

Tralasciando altri poco significativi quando è meglio fare k e a quest’ora non si dovrebbe fare y, si tenga tuttavia in considerazione la debole ipotesi che vedrebbe 10:10 e 22:10, quali ore inserite in tali spaccati cronologici ed utilizzate come strumenti rivelatori di certe consuetudini dell'uomo (anzitutto per smaltire l'argomento, non credendovi, in verità, personalmente, più di tanto).

… … … … …

Tenuti o meno in considerazione gli spunti o stimoli su esposti, un primo passo verso una riflessione sul fatto delle dieci e dieci credo possa essere quello di avanzare personali anche se minimi pensieri a riguardo: sinteticamente, considerando ciò che si crede possa essere il corpo di Motivazioni più vicino alla propria interpretazione (anche più di una, ovviamente); analiticamente, scrivendo - sotto la stessa numerazione e sulle righe apposite a piè pagina - un proprio pensiero o altre Motivazioni o Mandanti o, ancora, avanzando stimoli ulteriori e varie ipotesi di lettura. Naturalmente, maggiore sostanza avrà la doppia partecipazione, sintetica ed analitica.

Il presente, infine, volendo e dovendo essere stata - tale introduzione - solo un intervento assai minimo e ristretto nell’ambito episodico di VENTIQUATTRORE, potrà magari ricevere nuova forza, se tenuto in considerazione per eventuali sviluppi successivi: magari palaweb.com potrà ospitare le vostre varie interpretazioni, intanto che di sicuro se ne potrà riparlare presso i seguenti recapiti: dieci.e.dieci@libero.it oppure 0330.944891 (LUCA).

 

 

 

M1. Importanza di presenze nella metà superiore (del quadrante);

M2. Questione simmetrica (richiesta grafica);

M3. Dominio dell’angolo ottuso (sugli altri angoli possibili);

M4. Questione fonetica (richiesta sonora);

M5. Corretto ‘orientamento’ del segno (10:10 e non 1:50);

M6. Rapporti con la terza lancetta (35’’);

M7. Doppia decina (richiesta numerica);

M8. Numerologia, cicli biologici, coincidenze…

M9. Funzionalità e funzioni ‘commerciali’;

M10. Suggestione di immagini possibili.

 

 

…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………

……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………

…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….

…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………